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RECENSIONI

Il trovatore di Ferrania

 

Da 12 anni, in Valle Bormida viene portato avanti un ambizioso progetto per un piccolo territorio di provincia come il nostro, che è quello di rendere fruibile un patrimonio culturale ritenuto di nicchia e non accessibile a tutti: l’opera lirica. Partiti da Cengio, negli anni gli organizzatori hanno portato sul palco le opere più famose, spostandosi anche nei paesi limitrofi, facendone un evento itinerante.

Nel 2022, “Cengio in Lirica” si è trasferito nel comune di Cairo Montenotte, e precisamente nel borgo antico di Ferrania. E non poteva esserci una location più suggestiva per Il Trovatore di Giuseppe Verdi, opera ambientata nella Spagna di inizio del XV secolo. All’interno della borgata di San Pietro, nel parco della Casa del Fattore, tra l’altro Luogo del Cuore FAI, due erano i palchi allestiti. Un doppio impegno, quindi, sia per le scenografie – affidate al Laboratorio Teatrale III Millennio – che per la sistemazione del pubblico, chiamato a spostarsi per il secondo atto esattamente come tutti gli attori in scena.

Come di consueto, la regia è stata affidata a Mauro Pagano per un evento di ampio respiro che ha coinvolto diverse realtà, non solo locali ma anche internazionali. A fianco del Coro Monteverdi di Cosseria, diretto da Giuseppe Tardito, l’Orchestra dei Diavoli Rossi sotto la direzione del Maestro Franco Giacosa, i solisti del Coro dell’Opera di Parma. Su tutti spicca la performance e la precisione del soprano peruviano Magda Gallo, interprete di una splendida Leonora. Notevoli i costumi della Sartoria Teatrale Bianchi di Milano. Di contorno, il villaggio medievale, le comparse e le animazioni grazie ai gruppi di rievocazione storica Ordine del Gheppio, La Fenice del Vasto, il gruppo storico di Calizzano, D&E Animation di Genova.

Non è un caso se proprio in concomitanza con l’allestimento a Ferrania, sede della storica e omonima azienda produttrice di pellicole, all’opera lirica si è accostato il cinema: sui due maxischermi, oltre allo scorrere dei sottotitoli – sempre molto utili, soprattutto quando il libretto a corredo è scritto con un carattere troppo piccolo per essere leggibile di notte e all’aperto, sarebbe il caso di pensarci per le prossime volte –, in contemporanea all’interpretazione sui palchi, sono state proiettate alcune sequenze filmiche preregistrate, senza audio, con gli stessi cantanti lirici e altri attori in costume, scene complementari allo svolgimento dell’opera in diretta. Pensieri, emozioni, ricordi, flash back utili per spiegare il contesto e la storia della zingara Azucena (Dorina Caronna, mezzosoprano) e del trovatore Manrico (Davide Piaggio, tenore), da lei cresciuto come fosse suo figlio, ma in realtà fratello del Conte di Luna (Daniele Girometti, baritono), entrambi innamorati di Leonora (Magda Gallo, soprano).

Come solitamente accade nelle opere liriche, il finale non è a mai un lieto fine e si compie il dramma. Ma ogni volta gli applausi decretano l’immancabile successo della produzione. E a noi non tocca che aspettare un anno per la prossima edizione di “Cengio in Lirica” che, come anticipato dal regista Pagano, porterà in scena la Madama Butterfly di Giacomo Puccini.

 

Lorena Nasi - Giornalista freelance

 

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Il ritorno del trovatore

 

C’è stato un tempo, storico quanto favoloso, in cui in Val Bormida e dintorni bazzicavano i trovatori. Fra XII e XIII secolo, Rambaldo de Vaqueiras, Pierre Vidal e Bertran de Born furono ospiti dei marchesi Bonifacio I del Monferrato e Ottone I del Carretto, alle corti di Moncalvo e Cortemilia, insieme ai meno noti Folquet de Romans, Andrian de Palais, Peire de la Mula, Bernart de Bondeilhs, Gaucelm Faidit. Né è da escludere che qualcuno di loro, o altri di cui sfugge notizia, abbia soggiornato negli stessi anni alla corte del primo marchese del Finale Enrico II del Carretto, del cui dominio facevano parte diverse terre dell’attuale alta Val Bormida.

Otto secoli dopo ecco rispuntare un trovatore in Val Bormida. Non un ectoplasma fuoriuscito dalla suddetta età dell’oro della poesia provenzale, bensì un personaggio del secolo XV (quando nelle corti carrettesche di Finale e Millesimo bazzicava Gianmario Filelfo e in quelle del Monferrato il poeta Galeotto del Carretto): un personaggio nato nell’ambito teatrale spagnolo di primo Ottocento e subito fatto proprio dal melodramma. Il suo nome è Manrique (probabilmente in omaggio al celebre poeta spagnolo del ’400 Jorge Manrique) ed è il protagonista del dramma El trovador (1836) di Antonio García Gutiérrez, da cui Salvadore Cammarano trae il libretto per Il trovatore di Verdi (1853), l’opera che l’Associazione “Cengio in lirica” (presieduta da Daniela Olivieri) ha messo splendidamente in scena – in versione integrale – a Ferrania (Borgo San Pietro, Casa del Fattore) la sera del 30 luglio scorso, alla presenza di oltre 300 spettatori.

È Manrico, dunque, il trovatore che ha emozionato l’estate ferraniese, brillantemente interpretato dal tenore chiavarese Davide Piaggio, con voce chiara, piena e morbida ad un tempo, felicemente vittoriosa anche dei due do di petto nella cabaletta Di quella pira (entrati nella prassi esecutiva ma, come è noto, non previsti da Verdi). Con lui, la smagliante Leonora del soprano peruviano Magda Gallo, giovanissima ma con piglio e sicurezza da veterana: voce capace di ogni variazione di tono e registro richiesta dalla parte. Poi il vigoroso Conte di Luna del baritono pesarese Daniele Girometti, con il suo timbro bruno lucente che calza a pennello con il carattere del personaggio. E la commovente Azucena di Dorina Caronna, intensa in tutte le sfumature della complicata psicologia del personaggio, sempre in bilico fra amore e vendetta, lucidità e allucinazione.

Questi i protagonisti. Ma una menzione d’onore meritano anche il Ferrando di Franco Rios-Castro, la Ines della savonese Monica Russo, il Ruiz di Soroush Shokrollahi e il vecchio zingaro del ferraniese Paolo Magni, voce anche del Coro lirico Claudio Monteverdi di Cosseria, diretto da Giuseppe Tardito e, per l’occasione, accompagnato dai solisti del Coro dell’Opera di Parma; da ricordare anche le voci bianche “Clara voce”, dell’Associazione “Suaviter” di Celle Ligure, dirette da Valentina Caprioli, originali e simpatiche co-interpreti del celebre “Coro delle incudini” (grazie alle musiche composte ad hoc da Simone Olivari).

Grandi emozioni. Grazie a Verdi e ai suoi interpreti ferraniesi, naturalmente. Ma grazie anche al contesto in cui l’opera è stata calata e rappresentata, vincente a tutti i livelli: dall’ambientazione nel suggestivo teatro naturale della Casa del Fattore alle scenografie del “Gruppo Insieme” di Cengio, dalle scelte coraggiose della regia di Mauro Pagano (coadiuvato da Simone Olivari e assistito da Rebecca Pagano, Laura Clavario e Matilde Pagano) al fascino del tutto speciale di Ferrania, dove echi di avvenimenti e di avventure antiche si mescolano a struggenti malinconie post-industriali, a creare un’esplosiva miscela di emozioni. Se si arriva a Ferrania da Bragno, ci si imbatte nella corte e nella gloriosa abazia, e si sfiora, sulla sinistra, il parco dell’Adelasia: cocktail inebriante di storia, leggenda, natura. Se si arriva da Vispa, si attraversano le aree della fabbrica con i suoi annessi e connessi, da cui si sprigiona una nostalgia da periferia industriale semi-abbandonata. E la Casa del Fattore è nel bel mezzo, a ricevere e intrecciare echi da entrambe le atmosfere.

Quanto mai azzeccata, dunque, da parte di “Cengio in lirica”, la scelta di Ferrania – dopo Rocchetta Cengio (Cavalleria rusticana, 2012; Pagliacci, 2013; Le Villi, 2014; L’elisir d’amore, 2015; Amico Fritz, 2016), delle aree ex Acna di Cengio (Turandot, 2017; Carmen, 2018), di Millesimo (Bohème, 2019) e di Plodio (La traviata, 2021) – per un’opera, come Il trovatore, che fonde storia e leggenda, letteratura e realtà, la modernità (che a quell’epoca si chiamava romanticismo) e il medioevo della stagione tardo gotica. Grazie poi a quell’autentico perno narrativo che è la psiche di Azucena, passato e presente si fondono in un tempo perennemente rivissuto, quasi che tutto, come accadeva nella tragedia greca, accada in diretta: nella mente di Azucena i quindici anni che la separano dalla morte sul rogo della madre e del figlio galleggiano in un presente che non vuole passare. Anche per questo l’Azucena di Dorina Caronna sarebbe certamente piaciuta a Verdi (che ha voluto mettere in musica il dramma di Gutiérrez perché affascinato da questo personaggio) ed anche a Montale (che la cita in uno dei suoi Xenia).

Le scelte di regia, a loro volta, hanno colto e assecondato alla perfezione l’anima dell’opera, rispettando in toto partitura, sceneggiatura e ambientazione originali – anche nei costumi (della Sartoria teatrale Bianchi di Milano) – senza tuttavia rinunciare a soluzioni originali e sperimentali, quali il doppio palco (con allegro e “gustoso” trasloco degli spettatori, tra spiedini e sangria, nella pausa fra i primi e gli ultimi quadri), e i maxischermi con le immagini in diretta dell’opera alternate a scene preregistrate relative agli antefatti del dramma (a partire dalla morte sul rogo della madre di Azucena) e con l’intero testo del libretto in didascalia, a beneficio di una più agevole fruizione di un’opera tutt’altro che facile da seguire, come da rappresentare d’altronde. Al regista Mauro Pagano, dunque, un grande, meritatissimo plauso, per aver centrato l’obiettivo della sintesi fra tradizione e novità, mantenendo in pieno la promessa di sperimentazione e coinvolgimento.

Riflessione finale. Il trovatore di Ferrania ha fatto da prologo alle manifestazioni di “Cairo Medievale 2022”, ma il suo significato va ben oltre la circostanza. Le opere che da un decennio l’Associazione “Cengio in lirica” mette in scena in vari paesi e sedi della Val Bormida, in particolare quelle allestite nelle ex aree Acna di Cengio e quest’ultima di Ferrania, sono un ottimo esempio di come l’arte e la cultura possano essere un formidabile volano di riqualificazione e promozione del nostro territorio, ancora ferito dal duplice fallimento – prima della civiltà contadina, poi della civiltà industriale – che ha caratterizzato gli ultimi 60-70 anni della sua storia.

 

Giannino Balbis - Critico letterario e poeta

 

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Il trovatore di Verdi a Ferrania

 

Anche quest’anno l’associazione “Cengio in Lirica” è riuscita nell’intento di portare l’opera in Valle Bormida, e lo ha fatto mettendo in scena, in versione rigorosamente integrale, una delle opere più difficili da rappresentare: “Il Trovatore” di Giuseppe Verdi. Quale location dell’evento, per la prima volta è stato individuato il suggestivo Borgo medievale di San Pietro di Ferrania, frazione della città di Cairo Montenotte. Scelta particolarmente efficace in quanto l’ambientazione diventa parte integrante della messinscena; per la resa visiva si rendono necessari pochi elementi scenici inseriti in un contesto già fortemente evocativo, sia esso il boschetto o l’edificio denominato “la casa del fattore”.

Mettere in scena “Il Trovatore” è ardua impresa anche per i grandi teatri; difficilissimo trovare cantanti capaci di sostenere ruoli dalle enormi difficoltà tanto vocali quanto interpretative. “Cengio in Lirica” si è buttata a capofitto nell’impresa ed è riuscita a comporre un cast ben assortito, che ha saputo accontentare anche i palati più esigenti e che è stato in grado, grazie al gioco di squadra e all’entusiasmo, uniti ad una palpabile emotività, di mantenere vive per tutta la serata la partecipazione e l’attenzione del foltissimo pubblico , che ha salutato con vivo e sincero calore tutti i protagonisti sia durante la recita che alla fine dello spettacolo.

Nei panni del trovatore Manrico troviamo Davide Piaggio, che spicca per la comunicatività di un timbro rotondo e naturale, per la dizione chiara e per l’emissione morbida, ma dotato dello squillo necessario per affrontare i non pochi momenti drammatici ed eroici, su tutti la concitata “Pira” con i due temibili “do di petto” richiesti dalla prassi esecutiva. Magda Gallo, giovanissima, si fa apprezzare per la sicurezza con cui affronta le asperità della scrittura vocale, e che le consente di essere efficace sia nelle espansioni liriche che nei passi di agilità. La sua Leonora è innanzitutto una trepidante ragazza innamorata, ma la voce sa trovare screziature più intense quando subentra la figura dell’eroina determinata e pronta a tutto pur di salvare l’amato e, contemporaneamente, il proprio onore. Complice una linea vocale che privilegia l’omogeneità dei registri rispetto agli affondi nelle note gravi a cui la tradizione ci ha abituati, Dorina Caronna ci consegna un’Azucena senz’altro più “tenera madre” che “abietta e turpe zingara”; rende inoltre con notevole maestria scenica lo stato costantemente allucinato ed alienato del personaggio. Daniele Girometti possiede innanzitutto il “phisique du role” perfetto per incarnare il Conte di Luna; è protervo ed arrogante al punto giusto, ma grazie ad una linea di canto morbida e al timbro brunito (che molto ricorda, agli orecchi del melomane attento, quello del grande Giorgio Zancanaro), emerge anche nei momenti in cui si richiede nobiltà di canto, in particolare in un ben cesellato “Il balen del suo sorriso”. Franco Rios-Castro (Ferrando, il capo degli armigeri) rende molto bene il racconto dei fatti drammatici evocati nel prologo; Monica Russo (Ines, l’ancella di Leonora), savonese, è una presenza preziosa; pur nelle poche frasi riservate al personaggio, si fa apprezzare per la bella voce, per la dizione chiara e per la vivida partecipazione emotiva alle vicende della sua signora. Completano lodevolmente il cast il tenore Soroush Shokrollahi quale Ruiz e Paolo Magni (gloria locale che più locale non si può, essendo originario proprio di Ferrania e colonna portante del Coro Lirico Claudio Monteverdi) nei panni di un vecchio zingaro.

Il maestro Franco Giacosa dirige con il consueto piglio e solida esperienza la formazione de “I diavoli rossi”, che è ormai presenza fissa nei cartelloni di “Cengio in Lirica”; si percepisce benissimo che il gioco di squadra che si è creato tra i solisti ha beneficiato della sua attenta supervisione. Il Coro Monteverdi di Cosseria, diretto dal Maestro Giuseppe Tardito, è protagonista dei molti interventi corali; in questa occasione, è rimpolpato dai solisti del Teatro dell’Opera di Parma. Una nota di simpatia l’inserimento di un coro di voci bianche (i bimbi dell’associzione Suavites di Celle Ligure, diretti dalla maestra Valentina Caprioli) che si innesta con interventi originali, scritti per l’occasione dal maestro Simone Olivari, nel celeberrimo coro “delle incudini”.

La regia di Mauro Pagano si muove nel solco di una bella tradizione e aiuta lo spettatore a districarsi nella complicatissima vicenda, in cui trama e intreccio raramente coincidono. Azzeccatissima la soluzione di avvalersi di un maxischermo su cui sono proiettati, oltre agli ormai indispensabili sopratitoli, spezzoni in cui vengono ricostruiti gli eventi passati narrati dai personaggi; su tutti, l’episodio del supplizio della madre di Azucena, motore primo di tutti gli avvenimenti successivi e del tragico epilogo.

 

Andrea Piccardi - Musicista

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L’importanza del teatro popolare

 

Massimo Mila conia l'espressione Trilogia Popolare per riferirsi a Traviata, Trovatore e Rigoletto.

In realtà l’intento di Mila è quello di screditare, in parte,  le tre composizioni Verdiane, di attribuirle a una musica adatta al popolo che sicuramente non può comprendere la grandezza di un Wagner.

Con il tempo il suo concetto assolutamente errato è andato perso, ma rimane viva l'espressione “trilogia popolare” che conferisce alle tre opere una sorta di primato, come un podio, le tre opere più belle di Verdi, dove lo spettatore ha la facoltà di attribuire loro la medaglia che preferisce secondo i propri gusti, sapendo per certo che si parla sempre e comunque di un podio.

Il termine “popolare” viene usato tra gli altri anche da un grandissimo regista del 900, Peter Brook, che ci spiega nel dettaglio cosa sia il “Teatro Popolare”: un teatro che si spoglia delle sue vesti per andare tra la gente.

Quello che è successo con l’allestimento di Trovatore a Cairo Montenotte è proprio la sintesi di quanto dicevamo.

È accaduto il miracolo, grazie al suo ideatore e regista Mauro Pagano che è riuscito a creare una comunità dedita al melodramma, dove solerti  cittadini si rimboccano le maniche per diventare carpentieri, scenografi realizzatori, sarto, tecnici luci/video, cuochi.

Il borgo viene trasformato in un teatro lirico all’aperto in cui, come buona prassi del teatro popolare, lo spettatore è posto al centro della scena. E allora lo spettacolo di Pagano si sviluppa in due palcoscenici diversi, in uno si svolge la prima parte dell’opera nell’altro, in una seconda ala del Villaggiomelomane, l’altra.

Questo permette, nella lunga pausa tra prima e sonda parte, di gustare ottimi arrosticini di pecora cotti al momento.

Ma la cosa ancora più impressionante è che i vari cuochi, carpentieri, sarti, ecc. indossano abiti storici e salgono sul palco come coristi o figuranti, senza pensare al sindacato di categoria o a tutti i pregi che hanno le maestranze professioniste, con esiti in alcuni casi di gran lunga migliori.

Il risultato finale è un Verdi sentito, profondo, popolare, quindi vero: tutti fanno miracoli dai cantanti alla piccolissima orchestra che si sposta da una parte all’altra.

Infine Pagano salva Verdi da quel Cammarano che fece un libretto tutto improntato sui racconti e poco sulle azioni, grazie all’uso di due maxi schermi dove proietta dei “corti” da lui stesso precedentemente girati che ci raccontato i versi del Cammarano, con interpreti gli stessi cantanti e qualche paesano melomane.

 

Gianmaria Alivertra Regista

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